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Libro del mese – Aprile 2017

19 Aprile 2017

Leggiamo l’intervista realizzata da Dafne Stella e Chiara Napoletano, due studentesse al terzo anno del Liceo Classico “G. Galilei” di Pisa, nell’ambito del progetto dell’Alternanza Scuola-Lavoro presso Pacini Editore

Intervista a Donatella Turri, curatrice del libro.

In seguito alla lettura del suo libro, recentemente pubblicato, Viste dal mare, abbiamo pensato di rivolgerle qualche domanda che potesse chiarirci alcuni aspetti del tema trattato. Il libro racconta delle storie che hanno come protagoniste delle donne immigrate: ritiene che l’emigrazione femminile sia più rischiosa di quanto possa esserlo quella maschile?

La migrazione al femminile è un fenomeno che solo da tempo recente conosce numeri importanti. Fino a poco tempo fa sulle nostre coste arrivavano prevalentemente giovani uomini, e tra i richiedenti asilo e profughi i numeri parlavano di una quasi totalità di viaggi al maschile.
I percorsi migratori femminili nel passato si sono legati soprattutto ai lavori di cura o ai ricongiungimenti familiari.
Oggi, invece, sono molte le donne che affrontano viaggi estenuanti e rischiosissimi per raggiungere un altrove, in fuga da guerre, violenze diffuse, povertà estrema. Le storie che ci consegnano le donne che arrivano sulle nostre coste sono piene di dolore, al pari di quelle degli uomini.
Eppure rimane una vulnerabilità specifica connessa proprio al genere femminile.
Il corpo delle donne viene usato spesso come bersaglio privilegiato della violenza e della sopraffazione.
Viene martoriato ed umiliato nel suo femminile. Molte delle donne che hanno affrontato il viaggio raccontano non solo delle percosse, ma degli stupri, degli abusi e della schiavitù alla quale sono state sottoposte in quanto donne. Nel loro corpo portano spesso la contraddizione di un bambino che è nato proprio da queste esperienze di umiliazione e di violenza. Molte finiscono nelle reti di organizzazioni criminali e sono vendute e ridotte in schiavitù, inserite nel circuito dell’accattonaggio e della prostituzione.
Nell’introduzione che Chiara Bianchi di Altrodiritto ha scritto per Viste dal mare si cerca di chiarire quale sia la vulnerabilità propria delle donne in viaggio e si cerca di raccontare come ancora oggi il sistema di accoglienza sconti ritardi, mancanze e difficoltà nel relazionarsi con loro, in modo da garantirne una sufficiente tutela.

Immigrazione e pregiudizi: soffermandoci sulle motivazioni che stanno alla base della difficile scelta di partire, quali sono le ragioni prevalenti che spingono le donne a partire?

Le motivazioni che spingono le persone a mettersi in viaggio possono essere le più disparate e ognuna delle storie che arrivano merita di essere ascoltata per comprendere quali siano state le ragioni profonde per aver tentato il viaggio. Le storie raccolte in questo libro e quelle accolte nelle strutture delle Misericordie sono tutte storie di migrazioni forzate.
A spingere a partire, a convincere ad affrontare odissee lunghe anni e il cui esito spesso è tragico, sono le guerre e i conflitti generalizzati, in primo luogo. La paura della violenza e delle ritorsioni su di sé e sulla propria famiglia per le proprie opinioni religiose o politiche o per il proprio orientamento di genere. Spinge ad emigrare la povertà estrema, l’esclusione sociale e la fame. In molte regioni del continente africano e dell’oriente spesso fenomeni di carestia ricorrente sono connessi ai cambiamenti climatici epocali che si sono registrati negli ultimi anni, con alluvioni ed esondazioni ricorsive e con prolungati periodi di siccità o epidemie tra gli animali e la vegetazione. Il fenomeno dei cosiddetti “rifugiati ambientali” è diventato una delle emergenze planetarie e con esso il fenomeno del cosiddetto “land grabbing”, l’acquisizione violenta di superfici coltivabili a danno dei piccoli coltivatori.
Molte delle donne che fuggono raccontano anche di essersi sottratte alle pratiche di mutilazione genitale o a matrimoni forzati e precoci.

La ricorrente presenza di storie di bambini nel libro mira a fornirci un molteplice punto di vista sull’immigrazione attuale?

I bambini sono i nuovi volti della povertà migrante. Bambini molto piccoli, a volte neonati, a volte concepiti durate il viaggio, che affrontano traversate a piedi o in imbarcazioni di fortuna e che crescono con il tragico trauma della storia del loro viaggio o che rimangono vittime della traversata.
Nel libro il loro punto di vista è importante. Aiuta il lettore a ricordare il profondo senso di umanità che avvicina e unisce le storie di chi parte, con quelle di chi accoglie.
Parlando di donne, poi, era inevitabile confrontarsi con storie di “madri” e di “figli”, con il potente strumento di speranza e di pace che queste testimoniano, con la loro forza e la loro continua e sorprendente voglia di futuro.
Così, nel libro ci sono gli occhi dei bambini e ci sono gli occhi delle donne su di loro. C’è l’incredibile capacità che le donne esprimono di rimanere casa e radice per le piccole vite, anche quando sono state strappate via o sono nel dramma e nel lutto.
Si racconta l’essere sorelle che unisce anche donne distanti.
Si racconta la capacità di vita che le donne portano come gesto di ribellione definitiva alla morte.

Visto il contributo di più persone necessario per la stesura del libro, come ha scelto la sua equipe?

L’equipe è nata per caso, come il frutto di collaborazioni quotidiane all’interno di Confederazione. Tutte le persone coinvolte hanno solo prestato la propria voce alle storie che abbiamo raccolto. Le storie di quante arrivavano e di quante accoglievano, volontarie ed operatrici.
Queste storie le abbiamo raccolte, le abbiamo amate e abbiamo cercato di restituirle senza tradirle.
In alcuni casi le abbiamo fatte diventare dei veri e propri racconti, in altri abbiamo conservato la loro semplicità di documento e di testimonianza.
Senza che ce lo proponessimo, alla fine anche l’equipe è risultata tutta al femminile e credo che le pagine del libro, seppur diverse tra loro, restituiscano la consonanza che esce da questa condivisione di genere.

Qual è la ragione dello stile breve, conciso e immediato che caratterizza il libro?

Il libro è nato dalla voglia di salvare le storie, proprio come si salvano le vite. Lo abbiamo scritto con la stessa urgenza e con la stessa passione. In alcuni casi lo abbiamo addirittura definito “instant book”. Volevamo che uscisse in occasione della Giornata della Donna e diventasse il modo per celebrarla. Volevamo che conservasse le caratteristiche del dialogo, come quando ci si siede davanti ad un caffè e ci si racconta per il piacere di farlo e per la necessità di farlo.
Raccontare, raccontarsi storie, è forse il gesto più umano di tutti e le donne sono bravissime a farlo.
Posare il dolore dei racconti, la loro fatica, la loro straordinaria ricchezza sulle pagine è stato come consegnarle a una navigazione sicura. Sapevamo che la sincerità di quei contenuti non avrebbe avuto bisogno di molto altro per essere riconosciuta.

Qual è la motivazione della scelta di diventare una volontaria? Deriva da un’esperienza diretta avuta nei paesi da cui giungono i migranti?

Nella mia vita sono molte le esperienze di servizio volontario. Ma, nello specifico, quello che mi ha fatto incontrare le Misericordie è un vero e proprio lavoro.
Con altri colleghi e con molti, moltissimi volontari, contribuiamo a organizzare e animare nella Confederazione Nazionale delle Misericordie un sistema eterogeneo, articolato, efficace e capillare di risposta al disagio sociale, di servizi sanitari e di presenza in tutti i luoghi dell’esclusione e del dolore oggi.
Misericordie è un’organizzazione complessa, che consorzia più di 700 realtà in tutto il Paese, oltre 670.000 iscritti, di cui più di 100.000 fortemente impegnati e che vanta una storia di carità lunga otto secoli.
Per quello che riguarda la mia personale storia, io ho avuto la fortuna di vivere per un periodo significativo nel Sud del mondo. Pensavo che sarebbe stata una parentesi nella mia vita ed è invece diventato il punto di vista dal quale guardare il mondo e me stessa nel mondo. Mi ha obbligato a riconsiderare chi sono io, chi sono gli altri, come funziona il mondo, le sue risorse, la pace e la guerra, il dritto e il rovescio. Tenere gli occhi chiusi è diventato doloroso.
Da allora ho finito per non fermarmi più: ho lavorato nella cooperazione, nel contrasto alle povertà, nell’accoglienza.
Mi sono sentita addosso la responsabilità del mondo che avevo conosciuto e non sono più stata capace di pensare che non mi riguardava la sua sorte.

Cosa pensa sia necessario, in aggiunta a ciò che già viene fatto, affinché i giovani decidano di dedicarsi al volontariato?

Io credo che ai ragazzi debba proprio essere riconosciuto il diritto fondamentale di fare esperienza di servizio. Si diventa adulti e cittadini diversi, quando se ne è avuta l’occasione.
Se riusciremo a creare luoghi semplici, quotidiani nel quale i ragazzi possano concretamente misurarsi con la relazione senza pregiudizio, con ‘’incontro delle fragilità, con che cosa significa mettersi al fianco, rallentare il passo, aprire le braccia, non ci sarà bisogno di convincere nessuno della bontà del “volontariato”.
L’esperienza della gratuità e della prossimità è quella per la quale siamo nati. Ci rende umani, migliori, immensamente felici anche nel dramma. Quando si decide da che parte stare e si sceglie la parte del più piccolo, il cuore è sempre gonfio, è sempre pieno. Non si fatica a cogliere il senso di sé, del proprio futuro, del proprio essere capitati sulla Terra.
Credo che le nostre comunità, le nostre città, abbiano davvero la responsabilità di facilitare l’incontro tra i ragazzi e il valore del gratuito e abbiano il dovere di creare le occasioni e le opportunità perché i giovani possano indossare sulla propria pelle questa prospettiva.
Misericordia è un mondo meraviglioso dove poter inciampare in questa avventura ed infatti i ragazzi ci arrivano e ci stanno bene.
D’altra parte c’è da dire che spesso il mondo del volontariato fatica ad accogliere in maniera vitale i ragazzi e a lasciare loro il necessario spazio di proposta e di entusiasmo perché l’esperienza proposta possa parlare il loro linguaggio, perché possano comprenderla, riconoscerla, masticarla a modo loro.
Eppure, si seminerebbe una coloratissima rivoluzione.

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