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Rocco Normanno – Dipinti

2 Dicembre 2021

 

Rocco Normanno e i suoi “DIPINTI” tra “PASSATO E PRESENTE”

 

«La pittura di Normanno è una continua provocazione che attinge a schemi e modi del passato per ricondurci alla dimensione del presente […] ci pone davanti agli occhi ciò che è rimasto uguale nei millenni, nella continuità dell’agire, perché depositato nel patrimonio istintivo del nostro essere persone».

Alessandro Tambellini

 

“Dipinti” è il catalogo della mostra personale organizzata da Claudio Della Bartola “Passato e Presente” dell’artista Rocco Normanno (Lucca, Palazzo Guinigi, 20 novembre 2021-16 gennaio 2022).

La pubblicazione, curata dall’artista stesso, di grande formato, resa elegante dalle ampie bandelle ma priva di formalità, offre 58 straordinarie immagini a colori, anticipate da testi di noti critici d’arte e studiosi, tradotti anche in inglese.

Si può dunque sfogliare il libro a proprio piacimento: tuffandosi nei dipinti per divorarli digiuni di ogni delucidazione, oppure scegliere un percorso filologico, lasciandosi guidare dalle parole esperte e autorevoli, ma non per questo prive di emozione e immediatezza, dei saggi introduttivi, a firma del curatore della mostra, di Cristina Acidini, Franco Donatini, Ilario Luperini e Paolo Vitali. Lucida e centrata anche la bella Prefazione del sindaco di Lucca Alessandro Tambellini, che offre una prima pennellata, in apertura del catalogo, della figura e dell’opera dell’artista, che ringraziamo per essersi reso disponibile a una lunga e articolata intervista, che pubblichiamo integralmente nella nostra rubrica “Il libro del mese”, certi di fare un dono gradito ai nostri lettori e ai suoi molti estimatori.

 

“Fermare” le opere esposte in una pubblicazione scritta, quale valore aggiunto per una mostra d’arte?

Il catalogo è senz’altro un valore aggiunto perché è l’unica vera documentazione che resta quando la mostra finirà. Ci sono cataloghi che sono diventati poi veri e propri pezzi da collezione, opere d’arte essi stessi. Per l’artista inoltre è una grande soddisfazione vedere le sue opere stampate, si tratta di un piccolo riconoscimento che si dà e che dà al proprio lavoro. Terzo aspetto, non certo meno importante, è bello leggere e occasione di crescita poter leggere quello che viene scritto delle opere, scoprendone le diverse letture che possono aprire appunto nuovi punti di vista, talvolta anche inaspettati.

 

Claudio Della Bartola, curatore del progetto, paragona il pennello al “sesto dito della sua mano sinistra” che infatti “si è incarnito tanto da diventare un arto in più”. È d’accordo con questa sua affermazione?

È senz’altro un’immagine molto bella ed efficace. Il pennello però non è come un semplice dito, in realtà viene comandato non solo dalla mano, ma da tutto il corpo. Io dipingo in piedi, la posizione con cui si lavora influisce molto: la postura delle spalle, l’impulso dell’avanbraccio, del braccio. Quello del pittore è un lavoro molto fisico, come quello del falegname, o del sarto: occorre assumere delle posizioni del corpo molto precise e molto diverse a seconda di quello che si va a fare. Quindi amplierei questa definizione: il pennello deve diventare una prosecuzione del braccio, ma è in realtà mosso e diretto da tutto il corpo che deve essere sempre rilassato e lavorare armonicamente. Anche il respiro è importante: ci sono momenti in cui si lavora in apnea, perché il minimo movimento potrebbe compromettere la precisione.

 

Come nasce una sua opera? Trae ispirazione da una fotografia o dall’osservazione diretta di una situazione reale?

La voglia di fare un quadro nasce sempre dalla realtà, da quello che vedo in un dato momento, magari girando in una città, o viaggiando su un autobus: una scena di vita quotidiana che mi colpisce. Parte quindi una suggestione, a questo primo impulso dettato quasi dall’istinto, poi si va a unire, e mescolare, il bagaglio culturale e di esperienza che spazia in tutta la storia dell’arte. Quando nella mia mente si è composta la scena, ricerco i modelli più adatti per raccontarla, e riprodurla.

 

E poi come lavora?

Metto poi i modelli in posa, vestiti in un certo modo, con una certa luce. Quando tutto è composto come avevo in mente, a quel punto l’idea assume una nuova forma, adattandosi e conformandosi alla scena riprodotta. Faccio una serie di foto ad alta risoluzione, documentando in maniera più dettagliata possibile la scena, in modo da avere più materiale possibile per poi iniziare a lavorare. A me interessa che il tutto sia naturalistico e allo stesso modo realistico insieme.

 

Che differenza c’è tra realismo e naturalismo?

Prima di tutto occorre precisare che non necessariamente il realismo deve essere naturalista e viceversa. Nel naturalismo c’è una corrispondenza rispetto a come un soggetto viene riprodotto (per esempio si può dipingere in maniera naturalistica un drago, ma non per questo esiste nella realtà); il realismo racconta quello che davvero accade, anche se lo può fare senza riprodurre fedelmente la natura dei soggetti.

A me piace raccontare la realtà, così come accade e mi piace farlo in maniera naturalistica, unendo quindi i due aspetti.

 

Come sceglie i suoi modelli? C’è in qualche modo una connessione anche reale con i personaggi che raffigurano?

Assolutamente sì: nella scelta dei modelli mi piace che si sia un legame con la scena che vanno a interpretare e rappresentare.

Donatello nei modelli cercava proprio quel taglio etico e morale che poi andava a dipingere, per me è un po’ lo stesso concetto. Faccio un esempio concreto: per il quadro Giuditta e Oloferne i modelli sono realmente marito e moglie, e la madre è davvero la madre della donna. Questo a mio avviso conferisce un’espressività particolare.

Giuditta e Oloferne

 

Parlando della sua pittura molti fanno un parallelo con Caravaggio, e con la pittura seicentesca, è per lei effettivamente un punto di riferimento, di partenza?

Diciamo che sono partito non strettamente da Caravaggio, ma da tutto il periodo storico del seicento che mi ha sempre affascinato moltissimo: da Guido Reni a Velasquez, Gherardo delle Notti. Se devo scegliere un artista che sento più vicino di tutti, almeno dal punto di vista tecnico, senz’altro indico Jusepe De Ribera.

 

Quanto conta la tecnica per lei?

È fondamentale, è una conditio sine qua non. Faccio sempre l’esempio del chirurgo anche se può sembrare strano, ma dalla tecnica non si può prescindere. Come il chirurgo non può eseguire il suo lavoro senza conoscere alla perfezione ogni aspetto, così un pittore. La tecnica non è un fine, ma è senz’altro uno strumento, un linguaggio, imprescindibile.

L’arte deve avvalersi sempre della tecnica a mio avviso, perché è l’unico modo perché possa davvero “parlare da sola”, altrimenti ha bisogno di un altro supporto: per esempio di un critico che spieghi il significato, lo inquadri in un certo contesto particolare storico o culturale. Un’opera così finisce per non essere “indipendenti” dalla spiegazione, anzi senza di essa risulta incomprensibile.

 

È anche per questo che ama la pittura del Seicento?

Un critico ha detto “I quadri antichi erano difficili da fare e facili da capire. I quadri contemporanei sono facili da fare e difficili da capire”. C’è una verità in queste parole.

Ho scelto di aprire il catalogo con una citazione di San Francesco d’Assisi: un artista deve essere prima di tutto un operaio, deve conoscere il mestiere, al pari di qualsiasi bravo artigiano. Dopo di Poi, per poter essere davvero un artista occorre aggiungere alla capacità tecnica “il cuore”, saper trasmettere passione, emozione, altrimenti sarà un’opera vuota. Ma, ribadisco ancora, dalla tecnica non si può prescindere.

 

Oggi rispetto all’epoca seicentesca viviamo nella cosiddetta “Visual culture” in cui cui siamo bombardati da immagini di ogni tipo, che ruolo ha l’arte in questo panorama così diverso dall’antichità?

Prima di tutto l’arte incarna sempre il desiderio di esternare emozioni da parte dell’artista: è un bisogno di comunicare; indipendentemente dall’opulenza di immagini da cui è circondato, un artista ha bisogno di comunicare quello che sente, seguendo un impulso, senza porsi il problema di quante immagini rappresentino già quello che lui sente di voler raffigurare.

L’arte quindi è un mezzo di comunicazione, e occorre tener presente che un’espressione artistica, oltre a una forma di “artigianato” in cui è necessaria una grande preparazione tecnica, ha un’energia molto diversa rispetto alla fotografia o alla grafica realizzata al computer. Inoltre ogni artista è diverso dagli altri: nella sua opera ci sarà sempre una piccola novità, che nessuno ha colto, e raffigurato, nello stesso modo.

 

Molti gli elementi di continuità con il passato che tratteggiano l’uomo, e la donna, con le sue bellezze ma anche le sue caratteristiche più basse: il mito trasposto nella modernità per la rappresentazione di elementi connessi alla natura umana e immutati nel corso dei secoli. Che cosa è invece cambiato nel tempo e caratterizza spiccatamente l’uomo contemporaneo?

L’uomo è sempre uguale nel corso del tempo, perché l’essenza della natura umana non è mutata; quello che cambia sono i modi. Per esempio: se prima per viaggiare si usava una carrozza, oggi si prende un aereo, se prima per comunicare si utilizzava oltre alla conversazione la lettera, oggi si usano il telefono, le mail, le chat. Cambiano i mezzi dunque, mentre i sentimenti, le emozioni, le passioni che sottendono alle azioni umane restano immutate.

Se devo individuare un elemento che invece è davvero cambiato è la velocità, la frenesia, con cui avvengono i fatti e con cui si svolge la comunicazione.

Dovremmo tener presente che il nostro cervello non è una macchina adatta per uno stile di vita così frenetico: si rischia di smettere di pensare, di non avere il tempo di prendere in considerazione le conseguenze di una nostra parola o azione. È una cosa pericolosa.

 

Spesso dipinge, in un’interpretazione del tutto originale, episodi o figure tratte dai testi sacri, per lei ha una valenza spirituale la raffigurazione del Sacro?

Come dicevo all’inizio io prendo suggestioni dalla vita di tutti i giorni, immagino una scena che raffigura azioni umane che senz’altro sono “universali”. Quando aggiungo il titolo spesso mi rifaccio alla tradizione religiosa, come nell’Incredulità di San Tommaso, nel Davide e Golia, San Sebastiano e in molte altre opere. C’è, in effetti, una scelta “politica” in questo: è mia intenzione mostrare come all’interno della religione, della chiesa stessa, esistano anche il male, il peccato, perché fanno parte della natura umana e niente ne è escluso. La religione racchiude e rappresenta una vastissima gamma di azioni, anche molto negative, che l’uomo compie. Certo io ne faccio una mia rivisitazione, del tutto personale che spesso nasconde anche diverse possibilità di lettura. Quella suggerita dal titolo è senz’altro immediata, ma non l’unica.

San Sebastiano (particolare)

 

Originario della provincia di Lecce, si traferisce a Firenze per studiare Giurisprudenza, un percorso iniziato in tutt’altra direzione… perché questa scelta?

Fin da piccolo io amavo disegnare, fin da bambino ero affascinato da carta e penna, disegnare mi ha sempre “calmato” e realizzato. Quando è arrivato il momento di scegliere la scuola superiore purtroppo ho dovuto rinunciare al liceo artistico, troppo lontano da casa, e così ho fatto ragioneria, riuscendo a raggiungere la maturità. La materia che più mi piaceva e mi aveva attirato era il diritto, e così ho pensato di iscrivermi alla facoltà di Giurisprudenza che a Lecce non c’era, e così ho scelto di trasferirmi a Firenze, anche per il desiderio di conoscere un posto del tutto nuovo, oltre a una città bellissima.

 

Che cosa l’ha portato poi a “cambiare idea”, e indirizzo di studi, iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti?

Alla facoltà di Giurisprudenza sono riuscito a fare qualche esame, ma ovviamente non era quello l ’indirizzo di studi per cui ero più portato. Grazie alla conoscenza di un amico ho iniziato a visitare le meraviglie dell’arte che offre la città di Firenze: dagli Uffizi alla galleria palatina. Mi ero appassionato di fotografia, lavoro che ha ulteriormente “risvegliato” la mia passione per l’arte che alla fine ha preso definitivamente il sopravvento. Non riuscivo più a studiare le pagine dei testi di diritto, e così ho preso la decisione di abbandonare questi studi. Sempre grazie a questo amico, professore di storia dell’arte, ho compreso che la mia strada era un’altra e potevo farcela. Mi sono applicato duramente per entrare all’Accademia delle Belle Arti e ce l’ho fatta.

 

Che cosa riporta, o forse sarebbe meglio dire “trasferisce” di queste due terre, Puglia e Toscana, nei suoi lavori?

Della Puglia sicuramente la luce: sono profondamente legato a quella luce calda dell’estate, del tardo pomeriggio, una luce molto forte che effettivamente c’è soltanto nel Salento, che è la terra più a est del nostro paese. Naturalmente mi porto dietro anche tutta una serie di tradizioni culturali, l’educazione che ricevuto fino ai diciotto anni. La Toscana per me rappresenta la conquista della pittura in sé, del mio dedicarmi all’arte, del mondo dell’accademia.

Canestra di uva e vaso blu (particolare)

 

Si sente isolato in questo suo modo di interpretare l’arte, oppure come nell’antichità ci sono colleghi con cui si confronta e che percorrono lo stesso cammino, tanto da formare in qualche modo una corrente o addirittura una scuola?

Il mio è stato un percorso totalmente individuale, io una dimensione di confronto l’ho cercata all’interno dell’accademia, ma questo scambio di fatto non si può dire che ci sia. Non si formano vere e proprio scuole, nelle quali, come nel passato, si vada a creare il rapporto maestro-discepolo. Viene insegnato molto, ma certo non “i trucchi del mestiere”, per esempio non si impara come si mescolano i colori, come si maneggia una tavola. Queste cose le ho dovute imparare da solo. Certo in accademia eravamo tanti allievi, quindi è ovvio che uno scambio c’era e c’è sempre stato, se sei umile e sai osservare, “rubi con gli occhi” e capisci presto che è possibile imparare qualcosa da tutti.

 

La mostra durerà fino a gennaio, sta lavorando a qualche nuovo progetto o nuova mostra?

A primavera dovrebbe essere realizzata una nuova mostra a Monsummano, a villa Renatico Martini per la precisione, all’interno del Museo di Arte Contemporanea e del Novecento. Poi devo iniziare nuovi lavori di grandi dimensioni e posso svelarvi di che si tratta: tre grandi tele raffiguranti il Minotauro, Icaro e Dedalo, e Amor vincitore. Si tratta di opere di due metri per un metro e mezzo.

 

Quanto tempo conta di impiegare per realizzare questo lavoro?

Spero di farcela in un paio d’anni.

 

Le sue opere echeggiano come abbiamo visto episodi del mito, dei testi sacri, ma sono rappresentate da persone “vere”. A chi si rivolge con la sua pittura?

A me interessano le persone vere, la gente qualunque, vorrei che chiunque possa vedere un mio quadro senza bisogno di una sovrastruttura esegetica. Desidero che la mia pittura parli a tutti, e che a ciascuno possa comunicare un’emozione. Come dicevo i testi critici sono un’occasione importante, ma un quadro deve poter “vivere” da solo, senza la necessità di essere spiegato, in modo che semplicemente guardandolo si possa trovare una propria interpretazione.

E impossibile per ovvio motivi, ma vorrei che i miei quadri potessero essere esposti in una piazza piena di gente, cosicché passando chiunque possa osservarli, e coglierne il messaggio.

Riposo dalla Fuga in Egitto (particolare)

 

Ringraziamo di cuore Rocco Normanno per il tempo e l’attenzione dedicata ai lettori di Pacini Editore.

 

 

«Il traguardo dell’artista, di esporre fatti quotidiani nella loro dimensione carnale e materica, è raggiunto passando per i territori della grande arte europea, che lo sostiene e lo ispira in questo percorso originale e solitario»

Cristina Acidini

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